RASSEGNA STAMPA

Jobs Act riformista? La partita sull’articolo 18 non è ancora chiusa

12.10.2014

da huffingtonpost.it

L'Ulivo era più avanti. Si corre senza sosta con un nuovismo che porta a destra. Meglio una maratona con i valori della sinistra. "Se vuoi correre un miglio, corri un miglio. Se vuoi vivere un'altra vita, corri una maratona". Così il grande maratoneta Emil Zatopek dava il senso della differenza tra una corsa fine a se stessa e un'altra vita.

Quando nacque l'Ulivo, la prospettiva era un'altra vita: una straordinaria maratona in un mondo che era cambiato. L'obiettivo era interpretare i cambiamenti globali, da sinistra. Rendendo il mondo più equo, riformandolo.

Valori che ripeto a me stesso oggi, per capire se avevo capito male o se invece è stata un'illusione: centralità della persona nel rapporto con il mercato, convinzione che il capitalismo fosse sempre riformabile (su questo punto è fallito il marxismo) perché la produzione di valore va sempre difesa adattandola al tempo e alla società in cui si vive, sapendo sempre e comunque che quel valore serve a ridurre le disparità. E in questo continuo confronto tra i mezzi di produzione del valore e i modelli ridistribuivi, che c'è la difesa della persona.

L'Ulivo e il Pd nacquero perché fecero del solidarismo di derivazione cattolica, socialista e persino marxista un terreno comune più forte delle tante distanze di provenienza. Guardando sempre al futuro e a chi sarebbe arrivato dopo. Dalla politica estera ai diritti. Distanze che la politica e i vent'anni trascorsi dal 1995 ad oggi, hanno di fatto azzerato, chiarendo le differenze nette tra sinistra e destra come dimostra il dibattito sui diritti in questi giorni. Di quel terreno comune, il lavoro e la funzione dell'impresa erano e restano, i pilastri principali.

Qualcuno potrebbe pensare che il dissenso espresso alla luce del sole da alcuni componenti della direzione nazionale del Pd fosse motivato dall'eccesso di riformismo nella cosiddetta manovra sul lavoro, il jobs act.

Purtroppo così non è: per quanto mi riguarda la manovra è carente proprio in riformismo, perchè non affronta con una visione d'insieme le trasformazioni del mondo del lavoro e con risorse economiche adeguate, il nodo dei nodi: la funzione del lavoro, il suo costo e la competitività del Paese.

La delega in bianco chiesta dal Governo non interpreta nemmeno, come sarebbe auspicabile, la modernità spesso sbattuta in faccia a chi non la pensa nello stesso modo. Dei nuovi lavori figli dell'economia digitale non c'è traccia. Nonostante gli entusiasti del cosiddetto jobs act (di quella che non so come definire se non sinistra nuovista) richiamino spesso la digital economy, quando si entra nel merito del rapporto tra lavoro, impresa e società, tacciono.

Esattamente come ha taciuto il Ministro Poletti al Senato. Pare che non sia importante lo stravolgimento senza precedenti della catena del valore di numerosi comparti economici. Per i riformisti del nuovismo la rivoluzione si ferma ai google glass e alla narrazione della Silicon Valley. Niente analisi sul lavoro confuso con la merce, sul lavoro precario virtuale ed esentasse, nulla sulla necessità di cambiare l'intelaiatura fiscale che regola i rapporti tra Stati nazionali, società e imprese; nessuna analisi sul fatto che la vita delle persone grazie alle tecnologia sia cambiata in meglio, ma se le stesse alterano i principi cardine dell'equità fiscale diventiamo tutti allegramente più moderni e più poveri. Dei conti off shore delle multinazionali la destra è indifferente, come sempre. La novità è la connivenza della sinistra nuovista.

Poichè sono abituato a dire quello che penso e a fare ciò che dico (pronto sempre a pagare il conto salato che poi inevitabilmente mi viene presentato), ribadisco di non condividere il piano del ministro Poletti e del governo, ma non mi sottraggo ad un dovere etico.

Pur essendo i parlamentari liberi da vincoli di mandato, come recita la Costituzione, ritengo che esista un altro tipo di vincolo, almeno per noi, deputati e senatori, eletti sulla base di un sistema che affida grande, enorme discrezionalità ai partiti. Anche per chi come me si è misurato con le elezioni primarie e si ritrova in Parlamento grazie al voto di migliaia di democratici.

Penso che quando un partito, come il Pd, affronta un dibattito pubblico confrontandosi duramente ed esprime una sua linea anche se a maggioranza, quella scelta e quel genere di vincolo diventino un impegno per tutti.

Rivendico nello stesso tempo il rispetto per chi, tentando di migliorare la riforma, fa una battaglia, dice la sua e accetta la decisione della maggioranza. Mi aspetto che chi decide solo con la forza dei numeri, si ponga almeno qualche interrogativo sul perché una parte consistente della propria comunità politica ritiene la riforma sbagliata e sicuramente migliorabile.

Io penso che la battaglia per un vero riformismo possa e debba continuare al nostro interno e continuerà anche nei prossimi giorni. La partita non è chiusa non per un ridicolo e avvilente gioco di contrapposizione tra cosiddette correnti, almeno di pensiero, ma perchè la posta in gioco è quella più alta di tutte. In tempi come quelli che stiamo vivendo il problema non è accelerare sui licenziamenti, ma irrobustire le assunzioni. Ecco, la sfida del futuro è la sopravvivenza stessa dell'occupazione. Proporrò fino alla fine quindi, alcune modifiche che vanno in direzione del "modello tedesco" che andrebbero apportate, a mio avviso, alla riforma. Una riforma sulla quale per settimane siamo andati avanti guardando il dito (l'articolo 18) e non la luna (i sistemi per consentire alle imprese di creare nuova occupazione e non di tagliare quella, poca, che già c'è).

Conosco già la contestazione dei nuovisti in servizio permanente. "Il centrosinistra ha governato e non ha fatto niente". Argomento debole. L'Ulivo ha governato l'Italia da Ulivo senza "maggioranze allargate" dal '96 al '98 e dal 2006 al 2008 (quattro anni su venti) e gli embrioni di cambiamenti, sempre innestati, sono stati spazzati via dai fallimenti di una classe dirigente concentrata più su se stessa che sul Paese. Ma sulle "policies" nessuno ha mai avuto dubbi, anche nei Governi più tormentati degli anni successivi. In questi vent'anni è cambiato tutto, elettori compresi, con i diciottenni nati quando nasceva il primo Governo Prodi; ma una cosa la percepiscono tutti, giovani e anziani: la sinistra ridistribuisce e considera il lavoro un diritto; la destra pensa che sia il mercato a decidere e che il lavoro sia solo un dovere.

Avrei voluto cambiare il Paese da sinistra guardando le esigenze dei ventenni di oggi rivalutando anche tentativi di Ministri dei governi di centrosinistra come Ciampi e Padoa Schioppa le cui operazioni ridistributive in anni diversi e in contesti storici differenti, si fermarono a causa delle implosioni politiche, anziché seguire oggi le legittime (ma lontane da noi) visioni di Maurizio Sacconi sommate alla corsa di quel miglio così lontano dalla maratona di Zatopek.

Il mio timore è che oggi prevalga anche a sinistra solo la corsa verso l'apparenza. Che certamente appaga, soddisfa nel breve e ti fa anche vincere le elezioni. Non so però, tornando alle ragioni del nostro impegno politico, se l'apparenza sia in grado di riformare il capitalismo di oggi, a partire da quello digitale, ridistribuendo al tempo stesso opportunità, risorse e ricchezze.

Di una cosa sono certo, il grande Zapotek non avrebbe mai corso solo con l'apparenza una maratona. Con l'apparenza si corre solo un miglio. La maratona no, "la maratona è un'altra vita".

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