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Francesco Boccia «La tassa sarebbe un atto di giustizia per l’Italia Temo che il partito subisca il condizionamento dei colossi Usa»
«Quando lei fa un acquisto su Internet, i suoi risparmi finiscono alle Cayman. E non su un suo conto. Le fa piacere?». Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio della Camera, è uno dei sostenitori della Web tax «bocciata» da Renzi. E nonostante l’alt del segretario, continua a difendere le ragioni del provvedimento.
Onorevole Boccia, perché c’è bisogno di una Web tax?
«Stiamo assistendo alla più grande emorragia finanziaria della storia del capitalismo. Ogni giorno miliardi viaggiano in rete e vanno tutti nella stessa direzione, all’estero. Parlo di vendita di spazi pubblicitari, e-commerce, piattaforme connesse a giochi legali e illegali, pirateria informatica. È giusto che non resti niente in Italia?».
Qual è il senso della legge?
«Cambiare la strategia della tassazione. Spostarla dal luogo in cui si produce al luogo in cui si consuma. Se ne parla da qualche anno e per questo i giganti dell’economia Usa sono preoccupati. Nei grandi dibattiti si dicono sempre pronti a sottostare alle leggi dei paesi ospitanti. Però, se si prova a cambiare quelle leggi, si lamentano».
Perché tanto timore?
«Le cito dei dati: la pubblicità on line dal 2005 a oggi è cresciuta del 1.000%. Il giro d’affari del web marketing supera i tre miliardi. Peccato che questa crescita non la intercettiamo noi. Però si tratta di pubblicità fatta su mezzi italiani, relativa a prodotti italiani che vengono venduti a utenti italiani. E i ricavi? Tutti in California. Voglio ricordare che la Web tax non tasserebbe gli utenti, ma le multinazionali del web. Le aziende italiane non sarebbero toccate, le tasse le pagano già. E in più ci consentirebbe di tracciare i flussi finanziari verso l’estero».
Non si rischia di far scappare gli investitori stranieri?«Queste aziende in Italia non hanno mai investito un euro. Mi dispiace solo che le reazioni negli Usa abbiano trovato terreno fertile nel Pd».
Come se lo spiega?
«Il condizionamento culturale americano sul Pd e sull’Italia è preoccupante. Comprendo le reazioni, ma quando poi si fanno i grandi discorsi su Europa e Italia bisogna anche rispettarle, l’Europa e l’Italia. Le faccio un esempio: Kessler, capo dei media di Hollande, ha ricevuto l’ad di Netflix e quest’ultimo si è detto disponibile ad aprire una sede in Francia. Il premier gli ha risposto: "Benvenuti, ma solo se aprite qui una partita Iva". Noi chiediamo esattamente la stessa cosa. La verità è che i colossi del web non vogliono che questo accada».
È una vicenda così cruciale?
«Giudichi lei. Perché Forbes si è interessata così tanto a me? Perché ne ha parlato così approfonditamente la Camera di Commercio Usa? Non vorrei che anche nel Pd ci fosse una certa subalternità culturale verso le multinazionali del web. Dire che il problema si risolve in Europa vuol dire rinviare sine die».
È vero che la Web tax viola le normative europee?
«Il principio sulla libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone è scritto nel Trattato di Roma. Ma all’epoca Internet non esisteva».
Negli altri Stati c’è una legge simile?
«I tedeschi hanno tassato i pc; io sono contrario, ma lì lo hanno fatto. Pensi se accadesse in Italia... I francesi sono vicinissimi alla nostra proposta mentre gli spagnoli fanno accertamenti continui con indagini fiscali. Se per una volta arriviamo per primi non dobbiamo mica scandalizzarci, no?».
Alcuni parlano di entrate irrilevanti per il Fisco.
«Solo per la seconda parte della legge, quella sulla tracciabilità, la Ragioneria di Stato ha già stimato 130 milioni di euro di ricavi. Che potrebbero servire per abbassare il cuneo fiscale. Se gli altri sono contenti che le aziende in Italia chiudano e che i nostri giovani perdano il lavoro, è un’altra storia. Io resto convinto della mia idea».