da "La sottile linea rossa", il mio blog su l'Unità
E-taxation e regole uguali per tutti, anche online. Una web tax a tutela delle nostre imprese
Ne ho lette tante in questi giorni sulla web tax, la proposta di emendamento alla legge di stabilità in materia di tassazione on line. O, come è stata erroneamente ribattezzata, Google tax.
Tanto per cominciare, per ricapitolare ed evitare le più disparate interpretazioni: la web tax non limita l’accesso alla rete, non è contro i naviganti, è rivolta a chi, nel nostro Paese le tassa non le paga, togliendo miliardi (e di conseguenza anche occupazione) al mercato italiano,
Ho letto anche che sarebbe una proposta illegale, addirittura che toglierebbe posti di lavoro o, ancora, che violerebbe il Trattato di Roma sulla libera circolazione delle merci. Ai profeti del Trattato – Trattato cui sono culturalmente molto legato – ricordo che Internet e la sua rivoluzione sul funzionamento dell’economia è successiva agli stessi Trattati di Roma. Vogliamo, oggi, adeguarci ai tempi o no?
Dal momento, però, che le critiche, purché non sterili, sono sempre ben accette, mi sono guardato bene dall’ignorarle. Anzi, le ho lette con attenzione, apprezzando il dibattito che ne è venuto fuori.
E sono arrivato alla conclusione che la proposta sulla web tax in questione è una proposta sacrosanta. Perché è una misura di equità fiscale, innanzitutto, a tutela delle nostre imprese e del web stesso. E a chi dispensa critiche (il più delle volte senza neanche aver letto la proposta ma limitandosi a titoli strillati) vorrei chiedere: perché le multinazionali del web devono avere un trattamento privilegiato in materia di tassazione? Perché una delle mille aziende italiane che produce e fa profitti nel nostro Paese deve pagare le tasse mentre chi dall’estero viene ad investire, fare pubblicità, e allo stesso modo profitti qui in Italia può tranquillamente pagare le tasse in altri Paesi (come Lussemburgo o Irlanda) in cui le aliquote sono nettamente più basse e più convenienti delle nostre?
Il tentativo che come PD stiamo portando avanti è semplicemente quello di ristabilire regole uguali per tutti. Le aziende straniere in questi anni hanno approfittato di un vuoto normativo che gli ha consentito di non pagare le tasse nel Paese dove producono profitti. Nel nostro caso, in Italia. Bene, adesso, però, è arrivato il momento di colmarlo, questo vuoto.
Il dibattito sulla e-taxation non ha preso piede ieri, o la settimana scorsa, perché la politica italiana ha iniziato ad interessarsi al tema ma trova nella letteratura scientifica radici ben più lontane. Cito, a titolo esemplificativo, uno scritto pubblicato nel 2006, sulla rivista internazionale Intertax, da un nostro eccellente professore, Antonio Uricchio: “Some Thoughts for E-Reforming the Tax System: Beyond the Bit Tax”. Quello sulla e-taxation, però, è un dibattito relegato ancora tra pochi addetti ai lavori. Ecco, credo che oggi nel Paese ci sia un forte bisogno di andare a fondo di quelle tematiche. È arrivato il momento di prendere coscienza di come l’evoluzione tecnologica e della scienza informatica abbia inciso profondamente nella vita quotidiana, nelle nostre relazioni e sui modelli economici, influenzandone significativamente le forme e le modalità di produzione della ricchezza e la stessa sua circolazione.
A molti dei nostri interlocutori facciamo ancora fatica a far capire che la dematerializzazione della ricchezza necessita di un fisco completamente riformato. Perché, mi chiedo, le società estere devono pagare le tasse nei Paesi in cui hanno la sede legale che, guarda caso, hanno imposizioni fiscali molto più basse? Perché non possono iniziare a pagarle nei Paesi dove operano? Perché continuando su questa strada a rimetterci saranno soltanto i piccoli imprenditori italiani.
Quindi, proprio per tutelare loro, dobbiamo intervenire e porvi rimedio, perché altrimenti continuiamo solo ad alimentare un – cattivo – esempio di concorrenza sleale a scapito della nostra economia. Ed è proprio in tal senso che va letta la norma sulla web tax che prevede, infatti, l’obbligo per i committenti di servizi online di poter acquistare solo da soggetti in possesso di una partita IVA italiana in modo da non far sfuggire ad un corretto modello di tassazione gli introiti derivanti da questi stessi servizi.
Altro capitolo, poi, riguarda il gettito previsto. Di ipotesi ne sono state avanzate tante, forse troppe. Io, al momento, mi sottraggo dal balletto delle cifre e mi limito soltanto a dire che qualunque sarà il gettito effettivo dovrà avere una destinazione prioritaria: la riduzione del cuneo fiscale per lavoratori e imprese.