RASSEGNA STAMPA

La tassa al web non basta I giganti di Internet paghino di più

10.10.2017

Intervista rilasciata ad Alessandro Barbera,  pubblicata su La Stampa 

Sono cinque anni che Francesco Boccia insiste per introdurre la web tax in Italia. L obiettivo ora è a portata di mano, ma il presidente della Commissione Bilancio della Camera non è soddisfatto dalla soluzione ipotizzata al Tesoro e concordata in sede europea, ovvero un forfait dell' 8 per cento sul fatturato delle aziende senza stabile organizzazione in Italia. Dipendesse da lui, tutti i grandi player della rete dovrebbero pagare le tasse come qualunque altra azienda. Su questo promette battaglia in Parlamento.

Fatto salvo il caso di Google - ormai chiaramente organizzata con personale e strutture italiane - per molte di queste aziende è difficile provare l' esistenza di una stabile organizzazione in Italia. O no?
«Il mio cruccio è l'enorme asimmetria che si sta creando nel mondo del commercio: se un negozio di strada vuol fare una promozione deve chiedere l'autorizzazione al sindaco, Amazon non la chiede a nessuno».

È il bello della rete. Le sembrano casi paragonabili?
«Il problema è nel fatto che molte di queste aziende possono attribuire parte dei ricavi in Italia a consociate estere. Se chiedi una imposta a chi non dichiara nulla, il gettito è nullo. Do invece atto pubblicamente a Google di essere diventata un'azienda italiana».

Perché dice no al forfait? È pur sempre un primo passo.
«Il limite di questa opzione è che sancisce un diverso trattamento fiscale tra il business on line e off line. Questo non può accadere: abbiamo il dovere di superare le asimmetrie create da questa nuova organizzazione capitalistica».

In sede Ecofin quella della tassa forfettaria sul fatturato è l'ipotesi preferita, e probabilmente la più ragionevole. Crede sia possibile ottenere di più?
«Purtroppo ho dubbi sulla volontà ferrea del presidente della Commissione europea Juncker di arrivare ad imporre il principio della stabile organizzazione (Boccia ironizza sul fatto che Juncker è lussemburghese, dove risiedono molte aziende per ragioni fiscali)».

E qual è l'opzione preferibile per lei?
«Occorre coraggio. Io sono per introdurre l' obbligo di stabile organizzazione. Non vogliamo lo scontro con gli altri partner europei? Diamo alle aziende la possibilità di scegliere volontariamente di aderire alla stabile organizzazione, e almeno riscuotiamo l' Iva dovuta».

Questa ipotesi parte da una premessa incostituzionale: non si può esentare per legge i giganti della tecnologia dal pagamento delle imposte dirette.Non è così?

«Non sono d'accordo. Le cito i dati 20 16: il gettito da imposte dirette è salito da 243 a 250 miliardi; nello stesso anno quello delle imposte indirette è calato di otto miliardi. Secondo lei dove sono finiti quei soldi? Intanto facciamogli pagare le imposte indirette, sulle dirette ci sono altre soluz ioni, a partire dal cosiddetto «ruling», ovvero il dialogo dell' Agenzia delle Entrate con le grandi imprese. Delle due l'una: o gli imponiamo l'obbligo, oppure diamo più strumenti di accertamento all'Agenzia, alla procura di Milano e a tutti quanti si battono per una maggiore equità fiscale».

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